SU BENTU 2020

di Antonio Zedda

È difficile descrivere a parole cosa si provi a ripercorrere più di 80 anni di storia speleologica sarda, dentro la grotta che più di tutte ha contribuito a diffondere la passione per l’esplorazione delle cavità ipogee in Sardegna.

Su Bentu fa parte del vastissimo sistema carsico che drena le acque del Supramonte, dagli altopiani calcarei di Orgosolo ed Urzulei sino alle sorgenti di Su Gologone, a Oliena. Il reticolo di gallerie connesse alla grotta arriva a 16 km, e la sua complessa esplorazione ha inizio nella seconda metà degli anni ’30, in concomitanza con le prime visite solitarie dello speleologo nuorese Bruno Piredda, portate avanti dal Gruppo Grotte Nuorese e da tanti altri gruppi speleo italiani e stranieri.

Con i compagni di esplorazione dello Speleo Club Oristanese abbiamo percorso la lunga serie di discese in corda, vie ferrate e arrampicate dentro veri e propri canyon ipogei, con l’obiettivo di raggiungere la “Grandissima Frana”: un’immensa sala dalle irte pareti verticali, in cui l’essere umano diventa insignificante al cospetto della potenza geologica che ha riempito col vuoto la montagna.
Per arrivare a una zona così remota della grotta, abbiamo impiegato 2 giorni, dormendo sopra lo splendido manto di sabbia del “collegamento alla grande cengia”, ben isolati dalla permeante umidità e idratati dall’acqua calcica di su Bentu.
I vento, II vento, Caos, Passaggi Alti, Campo Chessa, Grande Cengia, Autostrada, Grande Pioggia, Sombrero, Sahara: queste sono alcune delle zone così chiamate durante le esplorazioni, per potersi orientare dentro quest’immensa cavità.
Durante la progressione ciò che colpiva maggiormente erano gli spazi sconfinati, gli alti soffitti e le strutture del calcare, queste ultime di una complessità disarmante, sia per le forme che per i colori.
Alcune concrezioni ricordavano la gruviera, altre le conchiglie, altre ancora delle sculture post moderne.
Il carsismo più che un fenomeno erosivo, sembrava quasi l’arte psichedelica attraverso cui la montagna si esprime. Non tanto per comunicarci qualche sorta di messaggio onirico, ma solo per infonderci un profondo rispetto e una devota ammirazione, in quanto forme di vita a base di carbonio. Legate indissolubilmente al calcare di cui è composta la grotta.

Dormire dentro la roccia nell’oscurità più totale, privati di ogni banale comodità, completamente bagnati e stremati dalla fatica, affidando la propria vita a quella del proprio compagno e viceversa, non è solo una prova di sopravvivenza o una semplice sfida, significa anche ripercorrere i gradini della scala evolutiva, quando da deboli neanderthal affidavamo la nostra vita alla protezione delle caverne. Significa addentrarsi nel complesso legame di amore/odio dell’uomo con la natura, del suo desiderio di scoperta, di conoscenza dell’ignoto, di superare metaforicamente la paura del buio.

 

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